“FRAN!” – Il cielo su Torino sembra muoversi al mio fianco

E non mi veniate a dire che Torino è grigia e piove sempre.

Non fatelo davvero.

Non pioveva da Dicembre. Siamo ad Aprile. Erano quattro mesi che questa città non si concedeva un momento di vulnerabilità.

Sempre lì, a dimostrare il contrario di quello che si pensa di lei. Sempre impeccabile e splendente. Una spruzzatina di neve a gennaio, così, gusto per non deludere nessuno e poi non si dica che qui il cielo è brutto.

Finché, oggi, è andata un po’ come la storia del quadro e del chiodo di Novecento: “FRAN!”

“A me m’ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c’è una ragione. Perché proprio in quell’istante? Non si sa. Fran. Cos’è che succede a un chiodo per farlo decidere che non ne può più? C’ha un’anima, anche lui, poveretto? Prende delle decisioni? Ne ha discusso a lungo col quadro, erano incerti sul da farsi, ne parlavano tutte le sere, da anni, poi hanno deciso una data, un’ora, un minuto, un istante, è quello, fran. O lo sapevano già dall’inizio, i due, era già tutto combinato, guarda io mollo tutto tra sette anni, per me va bene, okay allora intesi per il 13 maggio, okay, verso le sei, facciamo sei meno un quarto, d’accordo, allora buonanotte, ‘notte. Sette anni dopo, 13 maggio, sei meno un quarto, fran.
Non si capisce. È una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto. Quando cade un quadro. Quando ti svegli un mattino, e non la ami più. Quando apri il giornale e leggi che è scoppiata la guerra. Quando vedi un treno e pensi io devo andarmene da qui. Quando ti guardi allo specchio e ti accorgi che sei vecchio. Quando, in mezzo all’Oceano, Novecento alzò lo sguardo dal piatto e mi disse: “A New York, fra tre giorni, io scenderò da questa nave”. Ci rimasi secco. Fran.”

Al mio risveglio, questa mattina, a darmi il buongiorno, quel nervosismo un po’ immotivato. Un sogno di quelli che dovrei probabilmente analizzare meglio ma che decido di ignorare; tutto quel casino di cose lasciate in disordine in un angolo, il bisogno di stare a guardarle e non muovere un dito. La testa pesante, il rumore di una tazza che striscia sul tavolo di là in cucina.

Non carburo.

Vado in bagno, davanti allo specchio, mi guardo con gli occhioni grandi e mi chiedo: “cosa c’ha Vossignorìa, oggi?” 

Dovrei tornare a cantare.

Basterebbe a renderti felice?

No, ma riuscirei ad esprimere questo sentimento.

Quale sentimento?

Questa cosa che non so più trasformare il lacrime.

Poi sono andata dal parrucchiere – perché io quando mi sento di merda vado a farmi fare una piega – e di nuovo, lì a ridere e scherzare con le ragazze del salone:

“…no vabé ma io corti non riesco nemmeno a pensare di tagliarli. Se decido di farlo è perché sono definitivamente impazzita, roba che sto mollando tutto per andare chissà in quale posto sperduto, disconnessa dal mondo. Uno di quelli in cui i capelli non servono, insomma. Cose così…”

Ed è lì che arriva Pino, credo sia il proprietario, un uomo sui cinquanta portati abbastanza bene, che probabilmente ascoltava. Mi scruta un attimo, ferma Patrizia – lì, indaffarata tra la spazzola e la mia testa – mi raccoglie i capelli in modo da farli sembrare corti, con il ciuffo che scende sul viso da un lato, mi sorride e mi chiede:

– “Quanti anni hai?”

– Trenta.

Mi guarda deciso attraverso lo specchio e, tenendo ancora tra le mani i capelli raccolti, mi dice:

– Li taglierai cortissimi. Li farai riallungare. Poi li ritaglierai ancora cortissimi. Li farai allungare di nuovo, centinaia e centinaia di volte… Hai la vita davanti.

Mi sorride ancora, mi molla i capelli e se ne va.

Patrizia torna a darsi da fare con la mia chioma.

 

A Torino inizia a piovere, dopo mesi e mesi,

mentre io fingo con grande maestria una ciglia nell’occhio.

 

Fran.